Italia: Le linee
programmatiche delle riforme costituzionali
Vi proponiamo il
testo della Relazione introduttiva del Ministro per le Riforme Quagliariello
alla Audizione sulle linee programmatiche davanti alle commissioni congiunte
affari costituzionali di Camera e Senato.
Il tema delle riforme
costituzionali accompagna il dibattito politico italiano da oltre trent’anni.
Da allora innumerevoli sono state le iniziative, le proposte, i tentativi di
modernizzare la nostra democrazia. I risultati raggiunti, tuttavia, sono stati
inferiori alle aspettative: alcune riforme settoriali, talvolta anche
importanti (l’articolo 81 Cost.); una riforma organica ma dall’esito
contraddittorio (il Titolo V); qualche piccolo aggiustamento, oltre ad
alcune limitate riforme regolamentari, che hanno però mantenuto sostanzialmente
inalterato l’impianto del sistema.
Ciononostante, il
nostro assetto politico-istituzionale è cambiato profondamente. In primo luogo
perché è mutata la domanda politica che viene dalla società: le identità
novecentesche si sono sfarinate, le dinamiche sociali si sono velocizzate,
l’internazionalizzazione ha rivoluzionato il ruolo dei pubblici poteri nel
governo dei processi economici. Ma, a fronte di questi potenti fattori di
cambiamento, l’onere dell’adeguamento del sistema è stato interamente caricato
sulle spalle delle riforme elettorali che si sono succedute nel tempo.
La legge elettorale,
sia chiaro, ha un peso non secondario nell’orientamento della configurazione
istituzionale. Ma per essere realmente efficace, deve essere inserita in un
coerente contesto di norme costituzionali e regolamentari. Viceversa, è stata
proprio la scelta di affidarsi completamente alle sole virtù salvifiche del
sistema elettorale la causa prima delle difficoltà e delle inefficienze che
sono sotto gli occhi di tutti. Del resto, si tratta di un errore con il quale
il nostro Paese fa i conti ormai da un secolo.
Il tema del
cambiamento istituzionale è dunque uno snodo ineludibile, una delle priorità
per il Governo e per il Parlamento. Ciò per molte ragioni, fra le quali in
questo momento di crisi mi preme sottolineare il valore anche economico
rappresentato da istituzioni che funzionano. Vi è un’ampia letteratura
internazionale a dimostrare che l’architettura dello Stato non è un trastullo
per politologi e costituzionalisti: al contrario, l’efficienza istituzionale è
una variabile fondamentale per la competitività del sistema economico, e quindi
per la sua capacità di affrontare la recessione in atto e le pesanti ricadute
sociali.
Paradossalmente, il
costo di istituzioni inefficienti può essere assorbito nelle fasi espansive del
ciclo economico ma diventa insopportabile proprio nelle fasi recessive.
L’Italia ha pagato questo costo in misura crescente negli ultimi trent’anni. A
differenza delle altre grandi democrazie dell’Occidente, da tempo interessate
da processi di riforma, all’appuntamento con la competizione globale il nostro
Paese si è trovato sguarnito di strumenti adeguati alla portata delle decisioni
da assumere. Fino alla situazione di stallo, che avrebbe potuto divenire di
autentica paralisi, determinata da una crisi del sistema politico divenuto di
fatto tripolare, e da una sorta di “default” del sistema istituzionale, gravato
non solo dalla debolezza strutturale dell’esecutivo ma anche da un
bicameralismo paritario ormai unico al mondo e da una legge elettorale
concepita per un quadro bipolare, con coalizioni che raggiungevano, ciascuna,
quasi la metà dei consensi elettorali.
L’eccezionalità della
situazione è testimoniata dal fatto che per superare lo stallo si è dovuto ricorrere
alla inedita rielezione del Presidente della Repubblica uscente, opzione che il
dettato costituzionale – come sottolineato dallo stesso Presidente Napolitano –
aveva riservato a tempi fuori dall’ordinario.
Non a caso, all’atto
del giuramento, il Capo dello Stato ha incentrato il suo messaggio sulle
riforme non realizzate, fino all’estremo ammonimento che ritengo doveroso
ricordare: “Se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho
cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al Paese. Non
si può più, in nessun campo, sottrarsi al dovere della proposta, alla ricerca
della soluzione praticabile, alla decisione netta e tempestiva per le riforme
di cui hanno bisogno improrogabile per sopravvivere e progredire la democrazia
e la società italiana.”.
E del resto tale
consapevolezza è una delle “ragioni costituenti” dello stesso Governo, come
dimostrato non solo dalla scelta di nominare un Ministro per le Riforme
costituzionali, ma anche e soprattutto dal carattere “condizionante” delle
riforme rispetto all’intero mandato dell’Esecutivo, solennemente sancito
dal Presidente del Consiglio Enrico Letta che nel chiedere la fiducia in
Parlamento ha affermato: “Dal momento che questa volta l'unico sbocco
possibile su questo tema è il successo nell'approvazione delle riforme che il
Paese aspetta da troppo tempo, fra diciotto mesi verificherò se il progetto
sarà avviato verso un porto sicuro. Se avrò una ragionevole certezza che il
processo di revisione della Costituzione potrà avere successo, allora il nostro
lavoro potrà continuare. In caso contrario, se veti e incertezze dovessero
minacciare di impantanare tutto per l'ennesima volta, non avrei esitazione a
trarne immediatamente le conseguenze”.
Perché dalle astratte
declamazioni si possa giungere a risultati concreti bisogna tuttavia guardarsi
da due pericoli speculari: il conservatorismo costituzionale e l’accanimento
modellistico.
Il primo, sulla
scorta dell’idea che la nostra sia la Costituzione più bella del mondo, induce a
rifiutare qualunque intervento su di essa che non sia di mera manutenzione.
Ogni disegno di riforma viene bollato come attentato alla democrazia, come
sintomo di una deriva autoritaria. In realtà, non è oggi in discussione il
valore della Costituzione italiana; nessuno immagina di lavorare per adottarne
una nuova e diversa, nessuno ne mette in discussione i principi fondamentali o
la prima parte relativa ai diritti e doveri dei cittadini. La Carta del 1947
rappresenta storicamente un nobilissimo compromesso che ha reso possibile
quello che chiamiamo “miracolo costituente”. Oggi si tratta solo di verificare
se la parte seconda sull’ordinamento della Repubblica sia adeguata ai tempi o
viceversa richieda un profondo ripensamento, soprattutto nei tre capitoli cruciali
relativi alla forma di Stato, alla forma di governo e al bicameralismo, che i
padri costituenti nelle temperie della guerra fredda affidarono alle successive
generazioni.
Il secondo pericolo
da schivare è quello dell’accanimento modellistico. Tante discussioni senza
risultati concreti hanno infatti confinato il tema delle riforme nella
categoria delle dispute teoriche e accademiche, nella quale ciascuno è portato
a sostenere con rigore inflessibile la superiorità del proprio modello rispetto
a tutti gli altri. Ma un approccio simile, per certi versi fisiologico in un
ambito accademico o speculativo, se trasferito nella concreta dinamica politica
non è solo sbagliato: è anche pericoloso perché è il miglior modo per non
concludere nulla. Lavorare sul tema delle riforme non vuol dire disegnare il
modello costituzionale astrattamente ideale da calare dall’alto sul sistema
sociale e politico. La Carta fondamentale di un Paese non è un bellissimo e
solenne documento consegnatoci dalla Storia. Le Costituzioni sono materia viva
e vitale, che evolve continuamente e che, proprio per salvaguardare
l’originario spirito costituente, in alcune fasi storiche richiede di adattare
ai mutamenti intervenuti le regole che governano il funzionamento della nostra
democrazia.
IL MERITO DELLE RIFORME
Il tema delle riforme
istituzionali, com’è naturale, abbraccia numerosi aspetti. Anche se si tratta
di profili tutti meritevoli di attenzione, credo che in prima battuta sia
opportuno focalizzare alcuni nodi che, se adeguatamente risolti, potrebbero
preludere a un organico intervento di riforma.
Il pilastro
fondamentale del disegno riformatore è naturalmente quello della forma di
Governo. L’obiettivo è un assetto che garantisca la formazione di esecutivi
stabili, sorretti da maggioranze certe e durature, e in grado di assumere le
decisioni necessarie per incidere con efficacia e risolutezza sul tessuto socio
– economico del Paese, traghettandolo verso l’auspicata modernizzazione.
A tale riguardo,
abbiamo di fronte due strade: la forma di governo parlamentare razionalizzata e
il semipresidenzialismo secondo il modello francese. Si tratta certamente di
due forme di governo democratiche, ciascuna delle quali, con i necessari
contrappesi istituzionali, può assicurare governabilità, equilibrio tra i
poteri e garanzia per i diritti dei cittadini. La scelta fra le due opzioni è
naturalmente delicata ma credo non debba essere esasperata, poiché si tratta in
entrambi i casi di modelli che possono raggiungere risultati eccellenti.
Piuttosto, tale scelta deve essere il frutto non tanto di una preferenza
astratta e teorica, quanto di un’analisi puntuale e concreta del contesto
storico, sociale e politico nel quale il nuovo modello andrà a calarsi. Grande
attenzione va attribuita, ad esempio, all’evoluzione del sistema partitico
italiano negli ultimi decenni, ai fenomeni sempre più marcati di scollamento
fra politica e opinione pubblica, al contesto europeo che richiede una
accresciuta capacità di negoziazione.
Tali elementi
inducono a valutare se nell’attuale fase storica non sia preferibile adottare
un sistema che, grazie all’elezione diretta del Presidente della Repubblica e
all’introduzione di adeguati contrappesi istituzionali, sia più idoneo a
restituire legittimazione e capacità decisionale alle istituzioni elevando al
contempo il grado di trasparenza e di accountability del potere.
Qualora invece
dovesse essere confermata la scelta in favore della forma di governo
parlamentare, bisognerà naturalmente razionalizzare il sistema per garantirgli
un adeguato grado di efficienza, evitando quelle degenerazioni del
parlamentarismo che abbiamo sperimentato negli ultimi decenni e che erano già
oggetto delle preoccupazioni dei Padri costituenti, come testimonia il famoso
quanto disatteso ordine del giorno Perassi approvato nel 1946. In questa
prospettiva occorrerà valutare interventi sul procedimento di concessione della
fiducia parlamentare, sulla nomina e revoca dei ministri, sul potere di
scioglimento delle Camere, sulle prerogative del Governo in Parlamento.
Strettamente legata
alla forma di governo è la questione della riforma dellalegge elettorale.
La legge elettorale è uno strumento – decisivo, ma pur sempre uno strumento -
che serve a rendere coerente ed efficace il modello istituzionale prescelto.
Non avrebbe dunque alcun senso compiere oggi una opzione stabile in favore di
questo o quel sistema di voto senza sapere se la meta del percorso riformatore
sarà Parigi, Londra o Berlino.
Ciò naturalmente non
esclude la possibilità di interventi immediati e mirati sulla legge elettorale
vigente, per eliminarne i difetti più evidenti, a più riprese segnalati dalla
Corte costituzionale e dallo stesso Presidente della Repubblica. Del resto,
l’iniziativa assunta dalla Corte di Cassazione rende il tema non più
rinviabile. Non sarebbe in alcun modo auspicabile che la scelta di proseguire
la legislatura derivasse non dal perdurare dell’accordo che sostiene l’attuale
Governo, ma dall’impossibilità di celebrare nuove elezioni per inidoneità del
sistema di voto. Pertanto, ritengo che in questa prima fase sia necessario un
intervento di “salvaguardia” che renda certamente costituzionale il sistema
vigente e, “sterilizzando” il problema immediato della legge elettorale,
agevoli il percorso complessivo di riforma istituzionale, all’interno del quale
anche il tema della legge elettorale troverà una compiuta definizione.
Altro tema centrale è
il superamento del bicameralismo paritario e simmetrico, una
delle cause di malfunzionamento del nostro sistema istituzionale. La soluzione
sulla quale si registra un ampio consenso è quella di una sola Camera politica
che esprime la fiducia al Governo e di una seconda Camera rappresentativa delle
autonomie (Senato delle regioni e delle autonomie). La Camera dei Deputati,
eletta a suffragio universale e diretto, diverrebbe titolare dell’indirizzo
politico, avrebbe competenza esclusiva sul rapporto fiduciario, esprimerebbe il
voto definitivo sui disegni di legge. Il Senato sarebbe costituito da tutti i
Presidenti di Regione e da rappresentanti delle Regioni (ed eventualmente dei
Comuni), eletti da ciascun Consiglio Regionale in misura proporzionale al
numero degli abitanti. Nel nuovo quadro il Senato, oltre ad assorbire le
competenze del sistema delle Conferenze, parteciperebbe al procedimento
legislativo.
Ulteriore questione
ampiamente condivisa è la riduzione del numero dei Parlamentari. Il
problema si pone autonomamente ma, com’è ovvio, dovrà trovare una soluzione
coerente con la riforma del nostro assetto bicamerale. A mio avviso,
l’obiettivo deve essere quello di un allineamento agli standard europei nel
rapporto parlamentari-elettori, operando una forte riduzione del numero degli
attuali deputati e degli attuali senatori che andranno a comporre la nuova
Camera politica.
In questo contesto,
di grande importanza sarebbe anche una rivisitazione dei regolamenti
parlamentari da parte delle Camere, per migliorarne il lavoro e in
particolare snellire l’iter di approvazione delle leggi. Nel momento in cui
saranno messi a disposizione del Governo strumenti idonei a realizzare con
efficacia e tempestività il proprio programma, tra l’altro, potrà
concretizzarsi l’intenzione manifestata dal Presidente del Consiglio di porre
un limite all’abuso della decretazione d’urgenza e al ricorso sistematico alla
questione di fiducia su maxi emendamenti, che negli ultimi decenni hanno
logorato il rapporto tra potere legislativo e potere esecutivo e inciso negativamente
sulla qualità della produzione normativa.
Veniamo dunque agli
istituti di democrazia diretta, da rivedere al fine di favorire una
più intensa e più responsabile partecipazione dei cittadini alla vita politica
della Nazione. Penso ad esempio all’obbligatorietà del referendum confermativo
sulle leggi di revisione costituzionale. Penso anche alla revisione della legge
sul referendum abrogativo per adeguare all’aumento della popolazione il numero
di sottoscrizioni richieste; definire con maggior precisione i requisiti di
ammissibilità e anticiparne il giudizio; modificare la disciplina del quorum di
validità del risultato sulla base della percentuale dei votanti;
formalizzare il divieto, per un periodo determinato, di ripristino della
norma abrogata. Interventi ulteriori potranno riguardare le proposte di legge
di iniziativa popolare e, su un piano differente, la disciplina che regola il
dibattito pubblico sui grandi interventi infrastrutturali (sul modello adottato
da altri Paesi europei).
E ancora. E’ opinione
quasi unanime che l’attuale “policentrismo caotico” debba essere superato
attraverso la revisione della ripartizione delle competenze legislative tra
Stato e Regioni (art. 117) come individuate nel titolo V della
Costituzione. Diverse sono le opzioni sul tappeto. In ogni caso, appare
indifferibile un riordino dei criteri di riparto delle competenze fra i diversi
livelli di governo che ponga fine alla eccessiva frammentazione che oggi
rappresenta un fattore di grave complicazione istituzionale. Allo stesso tempo,
occorre restituire allo Stato quella essenziale funzione di coordinamento
finalizzata da un lato a garantire i diritti fondamentali sul territorio
nazionale, e dall’altro a promuovere i migliori modelli organizzativi
recuperando le situazioni di inefficienza. Un equilibrato sistema di governo
multilivello deve essere in grado di coniugare i principi di responsabilità e
di solidarietà.
Infine – e concludo
questo capitolo - andranno portati a compimento anche gli interventi relativi
alle istituzioni locali (parliamo del problema delle Province, rimasto
bloccato, del governo comunque necessario delle aree vaste, della questione
della dimensione ottimale dei comuni), e gli interventi relativi alla riforma
della finanza locale e regionale avviata con il federalismo fiscale.
Veniamo ora ai costi
e al funzionamento della democrazia. L’esigenza di un rafforzamento complessivo
dell’etica pubblica e di un recupero della fiducia dei cittadini nelle
istituzioni, impone una rivisitazione dei costi della politica e
in particolare dei suoi meccanismi di finanziamento, secondo canoni
di sobrietà e trasparenza che peraltro ben si coniugano con il processo in atto
di contenimento della spesa pubblica. Tale consapevolezza naturalmente non può
in alcun modo oscurare un altro dato incontestabile: la democrazia ha un costo
che, per una sua parte incomprimibile, non può essere disconosciuto. Se dunque
da un lato deve essere abrogata l’attuale legge sul finanziamento ai partiti,
dall’altro è necessario definire nuovi meccanismi che rendano tale costo
sostenibile.
Diversi sono gli
interventi possibili. Occorre ad esempio ricondurre i rimborsi elettorali alla
loro reale funzione: non finanziamento elettorale mascherato, ma rimborso
effettivo commisurato nei tempi e nelle misure alle spese sostenute e
documentate per la campagna elettorale. Quanto invece alle necessità
strutturali dei partiti, si impongono interventi fiscali e di semplificazione
che incentivino la partecipazione diretta dei cittadini al finanziamento della
politica. Infine, appare opportuno che lo Stato sostituisca l’erogazione
diretta di denaro con la fornitura di servizi in ogni caso in cui ciò sia
possibile.
Il vero rischio da
scongiurare è quello di un cattivo finanziamento. Oltre al dato quantitativo,
altrettanto importante è la questione dei criteri e delle modalità per
l’utilizzo delle risorse. La completa assenza di regole in proposito ha reso
possibile e in qualche modo favorito il diffondersi di gestioni opache e
“autoreferenziali”. Accanto agli interventi sul versante del finanziamento,
ritengo dunque opportuno che il Parlamento affronti il tema dello statuto dei
partiti politici in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione.
La rilegittimazione
dei partiti politici come strumento a disposizione dei cittadini per
partecipare alla vita politica del Paese, passa infatti anche attraverso un
aumento della trasparenza della loro vita interna, che ne garantisca un
orientamento verso il bene comune e la responsabilità nazionale. Nessun sistema
di finanziamento della politica può essere efficace nell’assicurare al contempo
uguaglianza e trasparenza nella competizione, se lo stesso non è
strutturalmente connesso a un sistema di regole che garantisca la democraticità
dei partiti politici. Naturalmente, qualunque intervento in materia dovrà
scrupolosamente farsi carico di trovare un punto di equilibrio fra il principio
di libertà di associazione politica - un fondamento di ogni democrazia - e le
altrettanto importanti esigenze di legalità e trasparenza. In questo senso,
ritengo che in nessun modo una disciplina dello statuto dei partiti politici
possa diventare elemento condizionante la possibilità stessa di movimenti o
associazioni di partecipare alla competizioni elettorali.
Concludo questa
panoramica essenziale segnalando la necessità di una regolamentazione
dell’attività di lobbying, in grado di evitare ingiuste demonizzazioni ma anche
di scongiurare che l’attività dei gruppi di pressione possa indebitamente
inquinare la vita democratica e alterare la concorrenza.
IL METODO DELLA RIFORMA
IL METODO DELLA RIFORMA
Accanto alle
questioni di merito, assume un carattere dirimente e sostanziale la definizione
di un metodo per le riforme che renda il percorso allo stesso tempo più fluido
e più solido. Su questo punto nelle ultime settimane si è concentrata
l’attenzione dell’opinione pubblica, grazie anche al contributo di autorevoli
commentatori.
Al riguardo occorre
grande chiarezza. La definizione di un metodo efficace per le riforme
istituzionali è sicuramente importante. Se finora i tentativi di revisione
organica del sistema non sono andati a buon fine, una parte di responsabilità è
da rintracciare nelle procedure seguite: in alcuni casi esse non sono state in
grado di garantire la necessaria efficacia del circuito decisionale; in altri non
sono riuscite a impedire che le tensioni politiche quotidiane interferissero
con il processo fino a bloccarlo, né hanno favorito la necessaria convergenza
delle forze politiche e dell’opinione pubblica.
Fatta questa doverosa
premessa, mi preme dire che comunque, al di là della definizione di un metodo
efficace, il vero terreno sul quale si misurerà la capacità riformatrice del
Parlamento e del Governo è l’individuazione di soluzioni di merito condivise e
adeguate alla sfida che abbiamo di fronte. Il rischio che vedo nelle polemiche
di questi giorni, infatti, è che le obiezioni avanzate rispetto alla
definizione di un metodo speciale di approvazione delle riforme costituzionali,
alcune fondate altre strumentali, nascondano una malcelata idea che sia meglio
non riformare nulla. Ma questa strategia di dissimulazione dei più profondi
istinti conservatori deve essere smascherata. Se qualcuno ritiene che l’assetto
costituzionale disegnato nel 1947 sia perfettamente adeguato all’Italia di oggi
lo dica chiaramente e si apra il confronto pubblico sul punto.
In questa
prospettiva, le indicazioni contenute nella Relazione del Gruppo di lavoro
sulle riforme istituito dal Presidente della Repubblica rappresentano un
contributo per tentare di definire un percorso che ponga la revisione
costituzionale, per quanto possibile, al riparo dalle tensioni politiche
contingenti. In particolare, la relazione sottende tre ordini di obiettivi che
ritengo sia comunque necessario considerare adeguatamente.
In primo luogo,
quello di coinvolgere soggetti esterni al Parlamento, legati al mondo
accademico e ad altri ambiti istituzionali e sociali, nell’opera di attenta
valutazione ed elaborazione dei progetti di riforma.
In secondo luogo,
quello di definire un iter procedurale che consenta di impostare da subito e
contestualmente un lavoro comune dei due rami del Parlamento, in grado di
allargare le basi del consenso e sciogliere i principali nodi politici prima
che essi emergano compromettendo, come accaduto in passato, il compimento del processo
di riforma.
In terzo luogo, il
metodo prospettato è volto a potenziare significativamente la partecipazione
democratica. Si prevede infatti l’attivazione di una procedura referendaria, da
articolare in base ad ambiti di materia omogenei, per confermare il consenso
popolare sulle leggi di revisione costituzionale anche qualora approvate con la
maggioranza dei due terzi.
Sulla base di queste
premesse la Relazione ipotizzava l’istituzione di una Commissione redigente
mista, costituita su base proporzionale da parlamentari e non parlamentari. La
proposta ha attirato l’attenzione di molti commentatori che hanno sollevato
perplessità di carattere giuridico e procedurale.
Quanto alle prime,
sono state evidenziate le criticità connesse al ruolo che rivestirebbero nel
processo di revisione costituzionale soggetti estranei al Parlamento, che pur
privi di legittimazione democratica sarebbero stati dotati di poteri
legislativi (d’iniziativa e deliberazione), al pari dei componenti parlamentari
della Commissione.
Sul piano procedurale
è stata invece rilevata la questione delle competenze da assegnare
eventualmente alla Commissione nelle more dell’approvazione della legge
costituzionale che ne sancirebbe la formale istituzione, e delle possibili
sovrapposizioni e interferenze che potrebbero determinarsi tra l’organismo e le
Commissioni Affari Costituzionali dei due rami del Parlamento. Taluni hanno
anche segnalato un’asserita compressione delle prerogative parlamentari che
deriverebbe dall’adozione di modalità di esame in sede redigente.
Si tratta di profili
d’indubbia complessità e delicatezza, che per alcuni aspetti appaiono fondati e
che dovranno essere adeguatamente esaminati in sede parlamentare. Ciò al fine
di definire un iter che da un lato sia nella sostanza rispettoso dei principi
che governano il processo di revisione di una Costituzione democratica e
dall’altro, per quanto possibile, soddisfi le esigenze cui prima facevo
riferimento.
Fine ultimo di tale
esplorazione è individuare un percorso che oltre a favorire il raggiungimento
di una larga intesa tra le forze politiche presenti in Parlamento, sappia
assicurare un pieno esercizio della libera sovranità del popolo combinando
assieme, e valorizzandole, le componenti della democrazia rappresentativa,
della democrazia diretta e della partecipazione popolare, coinvolgendo nel
processo di riforma le migliori energie e risorse politiche, istituzionali,
sociali e culturali del Paese.
Il futuro della
nostra democrazia riguarda tutti. In questo senso, ritengo sarebbe opportuno
attivare una grande procedura pubblica di consultazione, finalizzata a valutare
spunti e riflessioni sulle materie in discussione. Tutto ciò, ovviamente,
attraverso una procedura rigorosa già sperimentata prima di me dai ministri
Brunetta, Barca e Profumo.
Per garantire il
“controllo democratico” sul processo riformatore, infine, si può prevedere che
in ogni caso la legge o le diverse leggi di revisione costituzionale approvate
dal Parlamento vengano sottoposte a uno o più referendum confermativi popolari
- con quesiti distinti per materie omogenee - a prescindere dalla maggioranza
ottenuta in sede parlamentare.
All’esito di tale
approfondimento, dovrà essere delineato un percorso delle riforme in grado di
superare le difficoltà tecniche e le obiezioni politiche e di produrre
finalmente il risultato da tutti auspicato. L’unica cosa che il Governo non è
disponibile a fare, e mi auguro non lo sia nemmeno il Parlamento, è
“cincischiare” sulle questioni di metodo per arrestare il cambiamento.
Mi avvio a
concludere. Il percorso che il Parlamento e le forze politiche in esso
rappresentate hanno davanti si presenta inevitabilmente complesso e non privo
di ostacoli. Conforta tuttavia sapere che è diffusa la consapevolezza di come
un fallimento non gioverebbe a nessuna delle forze parlamentari ma avrebbe
l’unico effetto di screditare l’intera classe politica. Se terremo tutto ciò
ben presente, credo che il lavoro che ci attende nei prossimi mesi potrà essere
utile non per aggiungere un ennesimo capitolo al libro sui tentativi di riforma
costituzionale nel nostro Paese, ma per garantire finalmente ai cittadini un
assetto istituzionale più efficiente, più moderno e, soprattutto, più
democratico.
*Ministro per le
Riforme costituzionali